Come riprendersi l'impero

Lavori, evidentemente, ancora in corso

Me lo diceva sempre Flavio Pietro, di non fidarmi di quella πόρνη. Avrebbe dovuto andare fino in fondo, se mi voleva come suo cubicolario, e trovare la forza di estirpare definitivamente le mie tentazioni. Come aveva già fatto con Eusebio ed Ezio. Ma immagino si fosse affezionato troppo a me, ormai. Non ne ha più avuto il cuore.

Quando dicevano che era una maga, ridevo della loro ingenuità. Fosse pure arrivata dalla Colchide con una pashmina dorata sulle spalle, da quasi ottocento anni alle Medee à la Apollonio Rodio ci credevano solo le matrone sceme e orfane dell'orfismo (perdonatemi il brutto gioco di parole). E lei le uniche bacchette fatate con cui aveva dimestichezza, erano quelle tra le gambe dei suoi clienti, quando faceva ancora il suo vecchio lavoro.

Ma avrei dovuto capirlo che invece un po' di magia la doveva pur conoscere, se poi era arrivata dove era arrivata. Perché appunto, degli stecchini dei clienti di Galata, se ne era dovuta prender cura solo prima. Prima di trovare il cliente giusto. Prima di fare un bel salto di carriera. Prima di smettere di fare la πόρνη (prostituta, dicevano i miei amici di Roma), ed iniziare a fare l'imperatrice.

Quindi per quello che mi è accaduto, posso biasimare solo me stesso. L'ultimo grido nella mummificazione (aveva parecchi amici ad Alessandria); qualche nefando sortilegio orientale (zoroastriani e manichei affollavano la sua corte); una di quelle disgustose pozioni che gli stregoni dei barbari cuociono – cuocevano, scusate, ogni tanto ancora mi dimentico – nelle loro pentolacce sporche (parlandone persino il bestiale idioma, lei li chiamava druidi). Non so, tecnicamente, come abbia fatto.

Né tantomeno so perché lo abbia fatto. Pensavo di piacerle, anzi. Anche lì, non brillai per lucidità di giudizio. Quella notte mentre guardavamo il mare, le raccontai che ce lo volevamo riprendere. Non il mare, che laggiù è sempre nero come il vino, e non è di nessuno.

L'impero.

Volevamo riprenderci l'impero di Roma. O almeno, la metà che ci avevano rubato quei selvaggi barbuti, dopo che l'avevamo follemente diviso in due. Ma non era troppo tardi, le dissi, quella notte. E quella notte poi passò così, mentre le raccontavo i miei sogni, e lei mi guardava con una faccia stupita; passò in un fiato e venne l'alba, e alla fine mi addormentai, ormai mattina, nella capitale della metà di impero che ancora avevamo. Quando svegliandomi trovai che ero in un letto diverso, ed era sempre mattina, pensai che uno dei suoi eunuchi mi avesse portato in un'altro padiglione del palazzo, e di aver dormito là per un giorno intero. Mi sbagliavo. Ero stato portato in un'altra città, e avevo dormito per millecinquecento anni.

Millecinquecento anni sono abbastanza per dimenticare anche il proprio nome. Io però ho una buona memoria, me lo ricordo; ma non ve lo dirò (anche perché dirvelo ora, non vi direbbe comunque nulla). Ancor più del mio nome ricordo sempre, invece, la mia vecchia missione. Riprendersi l'impero; anche se, adesso, dalle mani di altri barbari.

Ma oltre alla missione vecchia, ora ne ho anche una nuova. Perché il tuo tradimento inspiegabile brucia ancora dentro di me, e avresti dovuto mandarmi a nanna per un tempo dieci volte più lungo, Teodora, per sperare che quell'incendio anche solo cominciasse ad estinguersi.

Ti devo cercare, Teodora, perché se hai voluto gettare la mia vita così lontano, tra altre genti e in un'altra era, allora non ho dubbi che anche tu sia ancora qua.

Ti devo trovare, Teodora, perché se anche io riuscissi a riportare la gloria a Roma, per me comunque non ci sarebbe gloria, senza le tue danze indecenti per celebrarla.

Ti devo combattere, Teodora, perché, be'... sei una specie di strega. Alla fine avevano ragione: in te è rinato il candore insidioso e l'innocenza cruenta di quella ragazzina che cantò Apollonio, e al cui pensiero sorridevo. Ma ora non sorrido più.

Ti devo combattere, Teodora, anche se non so da dove cominciare.

E allora comincio dal mio nuovo nome.

Questo capitolo è ancora da scrivere.